Per approfondire
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Il borgo rupestre di Vitozza è inserito nel Parco archeologico Città del Tufo con sede a Sorano. Il sito del parco (www.leviecave.it) propone schede descrittive e itinerari. Altre schede e gallerie fotografiche di Vitozza sono contenute nei siti del Museo toscano della scienza (www.museogalileo.it) e del Parco degli etruschi (www.parcodeglietruschi.it). Lo studio archeologico e il rilievo delle grotte e dei monumenti di Vitozza è stato effettuato da Roberto Parenti e pubblicato nel 1980. Può essere letto nella Biblioteca archeologica online dell’Università di Siena (www.bibar.unisi.it/node/130). Più recente è il volumetto Vitozza – La città di pietra nella valle del Fiora scritto da Franco Dominici (Laurum, Pitigliano, 2000, p. 64). A Vitozza è dedicato un itinerario da Giovanni Menichino nel suo Escursionismo d’autore nella terra degli Etruschi – Viaggio nella Maremma toscana (Laurum, Pitigliano, 2007). Carta escursionistica di riferimento è Alta Maremma – Selva del Lamone pubblicata dalle Edizioni Il Lupo in scala 1:25000.
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Il borgo rupestre di Vitozza
Il fascino di Vitozza più che singolare è in realtà plurale. È frutto della combinazione di più fattori: un’ombrosa «città morta» occultata sotto un manto di fitto bosco, un insediamento allungato sulla cresta di un colle che alterna imponenti strutture costruite ad antri naturali e scavati, la malinconia delle rovine riconquistate dalla natura selvaggia. Vitozza medievale non appartiene alla “grande storia” ma piuttosto alle tipiche beghe di quella provincia italiana che vive di alleanze e contrasti tra senesi ed orvietani, di più prosaici debiti e tributi da pagare, di ambizioni di famiglie e signorotti locali come gli Aldobrandeschi, i Baschi e gli Orsini. A metà del Quattrocento – parce sepulto – gli abitanti abbandonano definitivamente il borgo e i suoi edifici danneggiati dalle guerre. A dir la verità le grotte di Vitozza qualche raro abitante, magari poverissimo o soltanto agorafobico, lo avranno sempre, come pure ospiteranno regolarmente animali domestici grandi e piccoli. Ma a distanza di sei secoli l’oblio viene spazzato via dalla ricerca archeologica, dalla nascita del Parco della città del tufo e dal flusso moderato ma continuo di turisti italiani e stranieri innamorati della Maremma e della Tuscia.
L’itinerario
Siamo nella valle del Fiora, al confine tra la Toscana e il Lazio. Il punto di partenza è il centro di San Quirico, a poca distanza da Sorano e dalle altre «città del tufo» Sovana e Pitigliano. Un viale sterrato si allontana dal paese e procede lungamente nel bosco, fiancheggiato dal fosso di San Quirico a sinistra e dalle grotte di Piancistalla nel costone di tufo sulla destra. L’ingresso del villaggio è segnato da una pietra cava sormontata da una croce di ferro. Pur ricordando un’edicola o una cappellina è in realtà uno scavo ottocentesco destinato a un poco nobile pollaio. Le prime grotte sono tutte segnalate da pannelli descrittivi con i rilievi di Roberto Parenti. Grazie agli antichi catasti e alla memoria dei vecchi sanquirichesi di molte grotte sono ricordati gli ultimi abitanti del 1783, da Madama Laura vedova di Francesco d’Angelo a Giuseppe Benocci e Domenico Dattili. Le grotte hanno generalmente due o più vani funzionali alle esigenze residenziali e resti di gradini, focolari, camini, nicchie e graticci. Molte strutture sono franate o erose e successivamente riutilizzate come stalle e ripostigli. Un piccolo edificio adibito a foresteria del Parco introduce al colle di Vitozza e ai suoi sentieri. Sulla cresta del colle sorgono le strutture murarie delle rocche e della chiesa. Le pareti digradanti a est verso il fiume Lente e a ovest verso il Fosso San Quirico sono fasciate dalle grotte. I sentieri sono comodi e semplici ma è sconsigliata la discesa che conduce alle sorgenti del Lente e alle strutture ottocentesche dell’acquedotto.
Il sentiero gradinato di cresta ci porta all’ingresso del primo castello, noto come la Roccaccia. I brandelli di mura si levano direttamente sulla roccia e sono difesi da due fossati. Più avanti si trovano i resti della chiesa che, per assonanza col castello, è chiamata la Chiesaccia. Sono ben riconoscibili la struttura perimetrale di base, l’aula rettangolare, l’abside e il campanile a vela. Dopo la chiesa si raggiunge la seconda fortificazione, costruita a protezione dell’accesso settentrionale del colle e della via cava che scende all’ultimo insediamento, la grande rupe che regge le rovine impenetrabili di Sant’Angiolino dov’erano la chiesa, il palazzo e le grotte di servizio. L’ambiente è selvaggio e scomodo ma la via cava e le terrazze panoramiche sono sicuramente apprezzabili.
Si torna ora indietro per osservare le grotte. Quelle del versante ovest sono meglio illuminate dal sole e sono dunque destinate a un prevalente uso abitativo; le altre, sul versante orientale, ospitano soprattutto stalle. Sono tante, almeno 180. E conviene dunque limitare l’esplorazione a quelle più interessanti. Tra queste è sicuramente la grotta a due piani, comunicanti tra loro grazie a una scala di tufo (è la n. 22). Come pure la grotta del Somaro (n. 71), a doppio ingresso, con abitazione e stalla e la grotta della Riccia (la n. 15), dal soprannome della sua antica abitante. Scendendo nel fosso di san Quirico si trova un magnifico ambiente, un colombario (o meglio una colombaia per l’allevamento dei piccioni) con le nicchiette tutte uguali e scavate sulle pareti su trama regolare. Sull’altro versante si trovano veri e propri condomini rupestri (come le grotte dal 50 al 53), delle ampie stalle munite di finestre, come la porcilaia al n. 45 e cavità accessibili mediante un corridoio (dromos). Risulta difficile “leggere” gli interni delle grotte a causa dell’asportazione delle mura a protezione degli accessi e della conseguente usura delle infrastrutture domestiche interne (vasche, forni, pozzi, cistern, trogoli, recinti, mangiatoie, focolari, camini, ecc.). Ma l’insieme dell’insediamento si manifesta certamente come vario e pittoresco.
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