«Il comando di gruppo era a Villa Consalvi: due o tre rustiche case poche centinaia di metri sulla destra di Casa Catabbi, sempre in prima linea dunque; le precedevano alcune stalle e muti porcili, e un boschetto di querce frondose, sotto cui stavano, parcati nel silenzio, i nostri autocarri. Gli steli serpeggianti della zucca coprivano di festoni i porcili, mentre dagli orti traboccavano sulla carrareccia verdure incolte, lattughe soprattutto, alte e fiorite d’azzurro: il luogo era mirabilmente agreste. (…) Secondo gli ordini impartiti dal maggiore Pellagatta, iniziammo la marcia mettendoci tutti in fila per uno, onde ridurre il pericolo delle mine. Superata, al di là di Villa Consalvi, la strada che fino al giorno prima aveva per noi materializzato il fronte, poi due brevi filari di reticolati zeppi di papaveri, calammo con lentezza nella valle situata tra la nostra e la linea tedesca. Ciascuno di noi cercava di porre il piede esattamente dove l’aveva tolto chi lo precedeva. Alcuni tratti dell’impervia discesa erbosa, attraversanti le fasce di terreno più fittamente minate, gli uomini d’una compagnia avanzata senza incontrare resistenza il pomeriggio del giorno avanti, li avevano delimitati in sentieruoli, mediante lunghe strisce sottili di tela bianca (forse bende da medicazione inglesi) legate a rami conficcati. Ogni tanto alle nostre spalle esplodevano grida miste a risate, per il carico di qualche mulo che già si rovesciava.

Nel fondo della valle aggirammo, presso le macerie del paese di Crecchio, un castello medievale dalle grosse mura frugate in tutti i modi dalle artiglierie, ma ancora saldamente in piedi. (…) Risalendo lungo una carrareccia l’opposto versante della valle, passammo di lì a poco tra quelle postazioni: rare e tutte scavate ben addentro nella terra, accuratamente mascherate con rami ormai marci; dove c’erano state case, di nuovo cumuli di macerie. Al termine della salita ci attendeva la compagnia avanzata il giorno prima: i suoi paracadutisti stavano, anch’essi in fila per uno, fermi nei pressi di un cimitero; avevano avuto un morto, due feriti e un mulo morto per le mine. Il muro del piccolo cimitero di Canosa Sannita, che sulle nostre carte era stato l’obiettivo 301, appariva in più punti demolito dalle granate; sventrate diverse tombe, rotte o slabbrate le croci di pietra e le ingenue statue di marmo sulle sepolture dei contadini. (…) Di nuovo con lentezza, schivando le mine individuate o sospette, su cui erano stati o venivano via via collocati, due pezzi di legno a croce. Del paese contadino di Canosa non erano rimasti che pochi locali tra cumuli di macerie. Ci distrassero alcuni paracadutisti che, esaminando bene il terreno prima di porvi il piede, stavano uscendo dal sentiero sul quale il battaglione era in sosta. C’erano, in un campo a poca distanza, alcuni alberelli di ciliegio carichi di frutti, ed era l’invitante rosso delle ciliegie tra le foglie ad attirarli. Giunti all’albero più vicino, uno cominciò – con qualche motto – a issarsi tra i rami. Ancora non era entrato del tutto nel fogliame, che rintronò una forte esplosione: l’uomo stramazzò a terra urlando. I minatori tedeschi avevano, con odio, puntato mine a strappo anche tra i rami dei ciliegi. (…) Ripresa la marcia, arrivammo nel tardo pomeriggio a un pugno di case denominato “Madonna della neve”, dove ci giunse via radio l’ordine di fare alt per la notte. La località prendeva nome da una chiesetta devastata, vuota di panche e d’ogni arredo, col pavimento cosparso di resti di fuochi e di rifiuti. Nel suo mezzo i nemici avevano tirato un grande santo di gesso dipinto, dalle braccia allargate in gesto d’amore, e – forse al momento d’andarsene – gli avevano sfasciato il viso col calcio dei fucili. (…) Ripresa l’avanzata, seguitammo ad attraversare terre verdi e senza abitanti. Delle case che, isolate o a gruppi, sorpassavamo, erano rimasti soltanto i muri: non un mobile nelle stanze deserte, non una porta, rari anche i battenti alle finestre. I tedeschi avevano predato tutto: per farsene rifugi e fuoco l’inverno, e forse anche carichi ai treni delle munizioni che tornavano in Germania. Al passaggio del fiume Foro c’imbattemmo nei primi due di loro prigionieri. Nella corrente del fiume giacevano i resti di un ponte ad arco circondati di spume. Poco a poco intorno a noi che seguitavamo a scarpinare, l’aria incupì, annunciando la sera (la sera del nostro secondo giorno d’avanzata). Il sole era al tramonto quando, uscendo da una gola tra le colline, ci trovammo davanti il paese di Villamagna, dalle case strette una all’altra su una dorsale, Come un gregge che a distanza può sembrare nell’aria bruna pacificamente accovacciato per la notte, ma poi da vicino lo troviate privo di vita… Si scorgeva ancora qualche rovina, ma soprattutto colpiva il silenzio e quella mancanza di vita. Improvvisamente nell’aria vespertina si allargò il rintocco di una campana, si ripetè, divenne incessante. Forse per reagire a quell’importuno senso di deserto, alcuni paracadutisti erano saliti sul campanile e suonavano a stormo. Come dimenticheremo quel suono? Eravamo noi che davamo il benvenuto a noi stessi. Entrammo nelle vie deserte del paese, corse dall’ondante voce della campana. All’interno della villa trovammo un civile, il vecchio proprietario. C’era una domanda che da tempo mi ponevo: “Dov’è andata a finire” chiesi al civile “tutta la gente di questa zona?” “Come” rispose “non lo sapete? A Chieti sono andati, sotto la protezione del vescovo”. “La protezione del vescovo?” dissi meravigliato. “Certo. Da chi altri avere protezione ormai?”. (…) L’indomani, 11 giugno, il battaglione entrò in Chieti. Era domenica, giorno del Signore, e l’apparizione della città in vetta al suo colle, mi colse mentre pregavo camminando, simile a una risposta sorridente di Dio».

Itinerario

Percorso d’autore: Eugenio Corti con “gli ultimi soldati del Re” da Villa Consalvi a Chieti

Dal mare alle colline teatine - 1566: i turchi a Tollo

I sentieri del vino

Indice passeggiate

Un trekking d’autore sulle colline teatine è firmato, suo malgrado, da Eugenio Corti, scrittore brianzolo di ispirazione cattolica. È giugno del 1944. L’esercito alleato incalza i tedeschi dopo la caduta della linea Gustav. Corti, ufficiale della Nembo, comanda Gli ultimi soldati del re, quei soldati italiani che dal 1944 al 1945, inquadrati nell’esercito regolare, hanno combattuto insieme con gli “alleati” contro i tedeschi, non con odio, ma spinti dal senso del dovere, dall’amore per la patria, dal desiderio di finire al più presto una guerra che lacerava i corpi e le coscienze, dalla volontà di uscire dalla sconfitta e dal caos. Alcune pagine del suo libro raccontano l’avanzata dei soldati dalle rive del Moro verso Chieti “città aperta”, su e giù per i colli bagnati dal Foro, dal Venna e dall’Alento. Scorrono le immagini delle rovine di Crecchio, Canosa Sannita, Madonna della Neve, Villamagna. Un percorso da rifare oggi per riflettere e apprezzare il cambiamento.

Campi di battaglia

Sentieri di guerra e di pace in Abruzzo

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