Libertà sulla Maiella. I sentieri di Uys Krige

Siamo nel 1943. Un campo di concentramento nei pressi di Sulmona ospita circa tremila militari anglosassoni, provenienti soprattutto dalle operazioni della guerra in Africa. Il “Campo 78” (dalla numerazione che i tedeschi diedero a tutti i campi di concentramento sul territorio italiano) si trova in località Fonte d’Amore, alle falde del monte Morrone, e deriva da un vecchio campo fatto costruire per i prigionieri della prima guerra mondiale. La notizia dell’armistizio dell’8 settembre coglie di sorpresa il comando italiano del campo, nel dubbio se lasciare liberi i prigionieri, ora alleati, o consegnarli ai tedeschi, ora nemici-invasori. Nella generale indecisione le guardie allentano la vigilanza e molti prigionieri si danno alla fuga con la speranza di passare il fronte e ricongiungersi alle truppe alleate che avanzano dal sud Italia. I giovani prigionieri, che hanno bisogno di tutto, salgono sulla montagna o si rifugiano nei paesi che circondano la Valle Peligna. Nel frattempo il comando tedesco subentra agli italiani nel controllo del campo. Iniziano i rastrellamenti e sono affissi manifesti in cui si intima, pena la morte, di non dare aiuto ai prigionieri e di consegnarli. Tutti i paesi e le case di campagna nascondono prigionieri che ricevono aiuto disinteressato dalle popolazioni.

Uno degli evasi si chiama Uys Krige; è un ufficiale sudafricano appassionato di poesia e scrittura, che conosce un po’ d’italiano. Racconterà la sua rocambolesca fuga e il percorso a piedi verso la libertà in un libro famoso, “The way out”, tradotto in italiano come “Libertà sulla Maiella”. Il fascino del libro è tutto nel racconto degli incontri con i contadini e i pastori abruzzesi e molisani. Lo conferma Ignazio Silone: “Nel suo libro il Krige narra in forma semplice e commossa, innumerevoli episodi della spontanea e temeraria solidarietà di quella povera gente verso lui e i suoi compagni di evasione. Egli non esitava ad affermare che il tempo passato fra essi era il più bello della sua vita, avendo allora intravisto, per la prima volta, la possibilità di relazioni umane assolutamente pure e disinteressate”.

Qui seguiamo tuttavia le diverse tappe della way out di Krige, ricostruendo un percorso che può proporsi come un’affascinante idea di trekking. É infatti possibile rivivere oggi le emozioni di Krige percorrendo il lungo “Sentiero della libertà” segnato dal Parco nazionale della Majella o scegliendo percorsi più brevi sul Morrone, sul Porrara, sui Pizi o sul monte Campo. Occorre tuttavia rinunciare alla tentazione “filologica” di rileggere fedelmente sul terreno il percorso originario. I profondi cambiamenti avvenuti in molte aree territoriali rendono arbitrarie molte ricostruzioni. Ma l’idea resta affascinante.


Krige racconta che, nei giorni successivi alla fuga, in compagnia di altri ufficiali, si rifugia nelle grotte del Morrone, scampa al rastrellamento tedesco, trova assistenza in casa di Vincenzo nei pressi di Bagnaturo e si nasconde in una capanna alle pendici del Morrone, sempre aiutato dalla gente del luogo.


Erano circa le sei di martedì 14 settembre 1943, e noi quattro – Frank Cochran, Samuel Rochberg, Michael Marchant ed io – avevamo trascorso la notte in un crepaccio sul fianco del monte dietro il Campo Prigionieri di Guerra, a Fonte d’Amore, che avevamo lasciato in gran fretta domenica pomeriggio. Frank aveva cercato invano per tutto il giorno precedente di trovare un sentiero attraverso le montagne con almeno una sorgente per facilitare il passaggio di tremila prigionieri senz’acqua e con poco cibo attraverso il culdisacco della valle di Sulmona; e gli uomini – le cui capacità di resistenza erano state diminuite da diversi anni di prigionia – durante il giorno avevano cominciato a soffrire per la fame, la sete e la stanchezza. (…) C’erano almeno 1500 prigionieri sul fianco della montagna dietro il campo; alcuni, è vero, si erano riparati tra gli alberi, nei crepacci, nei fossi, nei borri dietro le colline e le montagnole, ma molti erano all’aperto, perfettamente visibili dal campo stesso. (…) Guardo di nuovo in su. I miei occhi si posano sui resti della vecchia casa di Ovidio sul fianco della montagna, a sinistra del campo. Le rovine splendono come una melagrana nel sole. (…) Pietro, quello dalla voce profonda, ci disse che il monastero sulla collina nel quale volevamo rifugiarci era già stato occupato dai tedeschi.


Con il passare dei giorni la situazione si fa insostenibile. Il tempo peggiora. I rastrellamenti tedeschi sono più intensi e pervasivi. Uys decide di aggregarsi ai pastori transumanti del Morrone e muove con le loro greggi verso il Guado San Leonardo. Qui i pastori si fermano: il fronte si sta serrando e proseguire avrebbe probabilmente significato farsi requisire l’intero gregge. Uys li lascia. Con alcuni colleghi prosegue verso Campo di Giove.


Marciamo da quattro ore quando troviamo il primo campo coltivato, coperto da sottili steli di grano. La nebbia si è sollevata e la valle è illuminata dal sole come le montagne. La foresta di betulle è ormai alle nostre spalle e ci avviciniamo alle pendici meridionali del Morrone. A nord-ovest una città sorge nel mezzo della vallata: è una vecchia conoscenza, Sulmona. «Grazie a Dio!» dice Sherk. «Finalmente siamo a sud di quella città! Ci abbiamo messo cinque settimane!» «E siamo ancora liberi», nota Sam. «Addio campo, addio Sulmona». Le ultime pendici sono molto ripide. A destra compare un’altra città: è Pacentro, dorata e piena di pace in cima ad un colle invaso dal sole. Troviamo la prima strada e l’attraversiamo due o tre volte, di tornante in tornante. Più in basso attraversiamo un fiume su un solido ponte di pietra. Poi saliamo di nuovo, torniamo a discendere, tagliamo per i campi e infine giungiamo in vista della strada che porta a Campo di Giove. La seguiamo per un miglio. Compare Campo di Giove. Sorge su un rilievo, e si vede subito la chiesa di solida pietra. Le mura delle case sono marrone e dorate, il villaggio è piccolo e compatto, concreto e grazioso nella morbida luce del sole.


In paese è attiva un’organizzazione locale della resistenza. “Tutto il villaggio vi era coinvolto. Fino a quel momento avevano aiutato più di duecento prigionieri, passando loro abiti, scarpe, ecc. Li avevano anche forniti di cibo: in quei giorni, l’organizzazione passava ai duecento prigionieri, dispersi in varie località attorno al villaggio, due pasti al giorno. I nostri vivevano nelle capanne, nelle stalle, nei pollai, nelle cantine, e le donne portavano loro il cibo verso mezzogiorno e prima del tramonto”. Un doppio rastrellamento tedesco disperde però l’organizzazione. Uys e i suoi amici si dirigono allora verso gli altipiani maggiori, seguendo a poca distanza la ferrovia Campo di Giove-Roccaraso. Ma il presidio tedesco installato alla stazione di Palena li costringe a scavalcare con un’aspra salita il Monte Porrara.


Quando traversammo la ferrovia cominciava a calare l’oscurità. Andammo direttamente in su. (…) Dopo un’ora eravamo fuori dalla zona dei cespugli. Venti minuti dopo, senza fiato, ci trovammo sul crinale più elevato. Sotto la luna sembrava stretto, affilato e chiaramente delineato come l’elica arrovesciata di una nave colossale. Sotto di noi si stendeva un mondo immenso, mezzo in ombra e mezzo illuminato, composto di una serie infinita di picchi immobili e sereni nella radiazione lunare; di una successione sterminata di strapiombi e di abissi nelle cui profondità l’occhio non poteva penetrare, poiché il fondo era immerso nella più profonda oscurità. Riposammo fino a poco prima dell’alba, quando iniziammo la discesa. Scendemmo direttamente verso il basso, e presto scoprimmo di esserci persi in una foresta di alberi alti, di una specie che non conoscevo. Poi calandoci per un declivio scosceso dove non c’erano alberi, vedemmo, a meno di cinquecento metri da noi alla destra e al nostro stesso livello, un edificio a quattro piani, costruito su di una roccia; le sue mura consunte e gialle splendevano sotto il sole al di sopra di un baratro profondo almeno centocinquanta metri. «Deve essere un monastero…» disse Sam.


Il giorno dopo, costeggiando l’eremo della Madonna dell’Altare, scendono nella valle dell’Aventino, attraversano di corsa la strada Casoli-Roccaraso, percorsa dai veicoli tedeschi, e si buttano su un sentiero nei boschi della Val di Terra, in direzione di Gamberale. Traversata la strada Pizzoferrato-Valico della Forchetta e superata Gamberale sulla destra, raggiungono la zona di Ateleta dove, seguendo le indicazioni di civili del posto, traversano il fiume Sangro.


Il sole era tramontato quando cominciammo a scendere il pendio alla nostra sinistra. Passo passo giungemmo in vista del fiume o meglio della sottile nebbia che si sollevava da esso. Lontano, alla nostra destra, sulla riva del fiume c’era il paese di Ateleta; e una strada, fiancheggiata dalla linea tranviaria, correva lungo l’argine settentrionale. Leggermente a destra oltre il fiume c’era il villaggio di Castel del Giudice in cima a una collina alta e isolata. Una strada si dirigeva verso di esso, e poi ne usciva continuando lungo l’argine meridionale in direzione dell’Adriatico; sulla vetta più alta del crinale davanti a noi si vedevano le chiazze bianche delle case di Capracotta, il nostro obiettivo di quella tappa.


All’alba il gruppo aggira Capracotta districandosi tra i massi ai piedi della parete di roccia di Monte Campo e nei giorni seguenti traversa la strada statale 86, trafficata di mezzi militari tedeschi, supera Agnone e raggiunge Belmonte del Sannio, dove è ospitato da contadini.


“Andate presto a dormire”, disse il vecchio, “domattina presto vi chiamerò e partirete. Sulla sinistra troverete un paese, Schiavi, in cima ad una collina. Dovete evitarlo, scendendo nel burrone sotto di esso. Poi uscirete dal burrone, attraverserete il villaggio di Taverna, che riconoscerete dalla chiesa rotonda e raggiungerete le case di Cupello. Qui vi dovete fermare, perché sarete vicini al Trigno. La gente di Cupello vi dirà dove sono le mitragliatrici”.


I fuggitivi si dirigono verso Schiavi, attraversano il Sente, e raggiungono la contrada di  Cupello.  Qui conoscono Pasquale Tucci, una guida che accetta di accompagnare loro e un altro folto gruppo di italiani al di là delle linee. La marcia di Uys e dei suoi compagni termina ai primi di novembre. Traversato il Trigno ai piedi della collina di Cupello, il gruppo risale il pendio che porta a Salcito. Il giorno precedente i tedeschi hanno abbandonato le loro postazioni sul fiume e la prima pattuglia canadese è già in paese.


Raggiungemmo l’argine del fiume. Il Trigno era davanti a noi, più largo del Sangro e meno profondo. Ci levammo le scarpe e attraversammo l’acqua gelida che tuttavia non ci raggiunse mai le ginocchia… Scalammo poi una collina molto ripida in direzione sud-est… Ci trovammo presto su un terreno difficile e dovemmo arrampicarci su un’altra collina per attraversare un altro affluente del Trigno… Percorso così mezzo chilometro, entrammo nella foresta, nella quale penetrammo profondamente lungo una strada in leggero declivio… Riprendemmo la marcia. Non c’erano più alberi, e la foresta era ormai una massa scura alle nostre spalle. Uno strato di erba folta copriva il terreno… Presto ci apparve Salcito. Lungo un sentiero pietroso superammo le prime case del villaggio. Quando raggiungemmo i carri armati i primi raggi di sole illuminavano le torrette mimetizzate. Poi i soliti alti, ridenti, entusiasti canadesi si tirarono fuori dalle coperte o uscirono dalla casa per darci il benvenuto; ma per noi erano qualcosa d’altro: giganti, eroi giunti da un mondo favoloso.

A piedi sulla linea Gustav

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