Itinerario nella provincia di Palermo
Gangi. Il Giudizio finale dello “zoppo”
Le tappe dell’itinerario
L’abitato di Gangi ricopre tutto un versante del solitario monte Marone, belvedere sui monti delle Madonie. Ed è davvero uno dei “Borghi più belli d’Italia”, con le sue stradine medievali, l’impianto urbano arabeggiante, le scalinate, i palazzi nobiliari e le chiese. E nella sua chiesa “madre” andiamo a scoprire una grande tela datata 1629 e firmata dal pittore Giuseppe Salerno, noto anche come “lo zoppo di Gangi”. Il soggetto è il Giudizio universale. Colpiscono subito nel dipinto alcune evidenti citazioni del Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, come la figura del Cristo, l’apertura dei libri, la pelle di San Bartolomeo e la barca di Caronte. Ma su quest’opera la critica è piuttosto demolitoria. Romeo De Maio, ad esempio, ne parla come di un “centone iconografico”, che “avanza di un nonnulla il limite dei Giudizi paesani”, e che “fu confrontato senza ironia con l’affresco vaticano”. Pure il dipinto ha una sua complessità e attira per la numerosità e l’affollamento dei suoi personaggi e l’ampio repertorio di scene e di temi.
In alto è la scena dell’Adventus Domini. Gesù torna per la seconda volta sulla terra “per giudicare i vivi e i morti”. Arriva di corsa, con i capelli e la tunica agitati dal vento impetuoso, dopo aver sfondato i cieli, circondato da un alone di luce solare sfolgorante. La sua mano destra, sollevata in alto, sembra scagliare sui risorti la sentenza di salvezza e di dannazione, secondo le parole del salmista: «di giustizia è piena la tua destra» (Sal 48,11). Gli intercessori s’inginocchiano ai suoi piedi per implorarne la misericordia nei confronti dell’umanità risorta: vediamo i suoi genitori, Maria e Giuseppe, e Giovanni Battista, il precursore, con la croce astile abbassata e il mantello rosso, simbolo del martirio. Sugli spalti delle nuvole in alto si affollano gli angeli in una sorta di gara esibizionistica per mostrare gli strumenti della passione di Gesù: la grande croce, la scala, il martello e la tenaglia per i chiodi, la colonna della flagellazione. In posizione di grande evidenza è il gruppo dei martiri innocenti, i bambini di cui Erode ordinò la strage nel tentativo di liberarsi di Gesù. I bimbi mostrano gli strumenti del loro martirio, la lancia, le spade, i pugnali, con i quali furono trafitti dagli sgherri erodiani e a gran voce chiedono giustizia: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?» (Ap 6,10).
Intorno al giudice siede il tribunale celeste, composto dai dodici apostoli. Il primo a sinistra è Andrea, con la croce del martirio ai piedi. Il primo a destra è invece Bartolomeo, l’apostolo che fu scorticato vivo: egli impugna con una mano il coltello del martirio e con l’altra regge la pelle che gli fu strappata dal corpo. Al suo fianco è Paolo, con la spada della sua decapitazione, che indica con le mani gli eventi apocalittici trascritti nelle sue lettere. Alle spalle degli apostoli siede la gran folla dei beati, con i patriarchi biblici, i martiri, i confessori, i dottori della chiesa, le donne sante. Gli eventi che sono descritti in cielo si completano con l’intervento degli angeli trombettieri che chiamano i morti al risveglio e con l’angelo che apre il libro del bene e del male, dove sono descritte le opere di carità e quelle maligne compiute dagli uomini.
Dagli aerei spazi celesti scendiamo ora sulla terra. Vi osserviamo un panorama brulicante di umanità, dove i personaggi coinvolti negli eventi apocalittici consumano in un istante (in ictu oculi, in un batter d’occhio) opposti destini, storie di festa e grandi tragedie.
Si comincia con la risurrezione dei morti, descritta nell’angolo in fondo a sinistra. Svegliàti dalle trombe dell’apocalisse, i morti ascoltano l’invito divino trascritto nei cartigli “surgite mortui, venite ad iudicium”. Dalle tombe e dai sarcofaghi scoperchiati le ‘ossa aride’ si ricompongono negli scheletri, le mummie riprendono vita e colore, i corpi si sollevano e guardano al giudice e al libro aperto delle loro opere. Dal mare, visibile all’orizzonte, riemergono coloro che sono morti annegati e sono stati ingoiati dai mostri marini; il flusso dei risorti dal mare si riunisce con la folla dei risorti dalla terra. Tutti ascoltano la sentenza del giudice e apprendono quale sarà il loro destino eterno. Si formano due opposti cortei, smistati dagli angeli. L’arcangelo Michele difende a spada tratta il gruppo dei beati dall’aggressività di un demonio a caccia di anime. I buoni, destinati alla beatitudine eterna, ascendono verso il cielo. Procedono in parata, a ranghi compatti, come falangi della chiesa ‘trionfante’, scortate da angeli alfieri. San Pietro, con le chiavi del regno dei cieli ricevute da Gesù, riapre per loro le porte del paradiso, quelle porte che erano state chiuse dopo il peccato originale.
Sul fronte opposto, il corteo dei cattivi si avvia verso l’Inferno. Dovremmo però parlare di ‘inferni’ al plurale. Il primo inferno rappresentato sulla tela è quello classico, il Tartaro geco e romano, con le mura e le torri della città di Dite, circondate dai fiumi infernali. Il barcaiolo Caronte traghetta i dannati sulle tetre paludi d’Acheronte e li scarica a colpi di forcone sulle rive opposte del fiume Stige. Il secondo inferno che il pittore cita sulla sua tela è la bocca dentata del Leviatano, la gola del pistrice, derivata da una duplice fonte biblica, quella di Giobbe (Intorno ai suoi denti è il terrore! Dalla sua bocca partono fiaccole, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo come da caldaia accesa e bollente. Il suo soffio accende carboni, fiamme escono dalla sua bocca) e quella di Isaia (Lo Sheol dilata la gola, spalanca la bocca senza misura. Vi precipitano dentro la nobiltà e la moltitudine). Il terzo inferno che vediamo sulla tela è il cratere di un vulcano, rosseggiante del riverbero di caverne ardenti, denso dei miasmi eruttati dalle fumarole. Possiamo pensare al vicino vulcano dell’Etna, quel Mongibello che una tradizione antica (da Gregorio a Dante) considerava la sede dell’Inferno.
Non resta ora che identificare i diversi dannati che subiscono le punizioni infernali. Il pittore ha voluto agevolare la decrittazione delle pene, fornendoci le opportune didascalie, anche se i nomi dei peccatori sono trascritti nel dialetto siciliano antico. Nella barca di Caronte si affollano, tra gli altri, un taverniere, un frate cappuccino, un vescovo, un cardinale, uno speziale, un bugiardo, un muratore, un iracondo, un avvocato e un notaio. Nella gola del Leviatano sono puniti l’adultera, il ruffiano e il sodomita. Nel cratere del vulcano infernale si alzano le forche, i pali, le graticole, gli spiedi e gli strumenti di tortura destinati ai vizi capitali. I lussuriosi ardono nel fuoco, i superbi sono abbassati, gli avari sono tormentati con il denaro fuso, gli iracondi e gli omicidi sono legati alla colonna e torturati.
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