Le tappe dell’itinerario
L’itinerario
Punto di partenza del nostro itinerario è Colle San Magno, borgo medievale sulle gole del Melfa, appollaiato sulle prime alture di monte Obachelle. Traversato il paese e raggiunto il cimitero, al bivio antistante si va a sinistra per meno di un km fino a un fontanile. Qui si parcheggia. Siamo a 625 metri di quota. Pochi passi sull’asfalto conducono a una villa e immediatamente dopo a una sterrata sulla destra, indicata come Via Settare. Imboccata la sterrata, la seguiremo fino al termine. La salita è dolce e progressiva ma non manca qualche strappo più ripido. Seguiamo il fondo della valle della Cesa dei Tredici, a fianco del fosso del torrente, solitamente asciutto. Il bosco governato a ceduo è il protagonista della prima parte della passeggiata; tratti più fitti si alternano a zone di taglio e alle piazzole di carico del legname. A una curva, prima di una rampa in ripida salita, si cerca sulla destra la grotta a ferro di cavallo che nel 1944 fungeva da infermeria tedesca nelle immediate retrovie della linea Gustav e del fronte di guerra. Dopo 45 minuti di cammino il bosco si apre e lascia spazio ad ampie radure e alle case rurali di un villaggio ormai abbandonato. Le case hanno in genere due piani; costruite in modo sfalsato sul declivio del colle hanno un accesso anteriore al piano terra e l’accesso posteriore all’altezza del secondo piano. Le stanze del piano basso sono destinate generalmente a stalla e sono dotate di lunghe mangiatoie. Le stanze in alto sono invece il deposito del fieno, degli attrezzi e dei prodotti agricoli. I campi intorno sono stati intensamente coltivati in passato a cereali e ortaggi. Davanti le case sono ancora visibili i pali di ferro dei fienili e le aie rotonde per la battitura del grano: per ovviare al terreno in discesa esse sono state rialzate sulla base di una struttura circolare in pietra a secco. Assolutamente ingegnosa la tecnica per la provvista dell’acqua: in assenza di acquedotto, ogni casa dispone di una cisterna interrata, accessibile grazie a un pozzo; l’acqua piovana viene raccolta dalle grondaie dei tetti o da piattaforme circolari di cemento e portata in cisterna da canalette di adduzione. L’architettura spontanea ha le sue gerarchie. Il primo stadio è quello degli edifici più grandi, a due piani, isolati, visibili e bene esposti al sole di mezzogiorno; più in alto, a vedetta, sorgono costruzioni monocellulari, più piccole e nascoste, dotate di camino e destinate a spartana abitazione; appena più su, sotto roccia e negli anfratti, sorgono basse baracche con i muri perimetrali in pietra a secco e copertura di lamiera; l’ultimo stadio è infine rappresentato dalle grotte; scavate nelle fasce rocciose più tenere o sulle scarpate sono destinate a ovile. Un’abitazione porta ancora il numero civico sulla facciata. Su una pietra della parete laterale è riportato l’anno di costruzione, il 1896. I muri laterali alternano i filari di blocchi di pietra con strati di cocci e malta, per garantire l’elasticità antisismica delle strutture portanti. Da osservare sono anche i virtuosismi costruttivi degli architravi sulle porte di accesso.
Si riparte di nuovo sulla sterrata nel bosco ora in salita più sensibile. Dopo un’ulteriore mezzora di cammino arriviamo alla conca delle Sett’are, sopra i novecento metri di quota, obiettivo della nostra passeggiata. Il luogo è ameno, punteggiato da grandi alberi isolati di castagno, noce e ciliegio. I pascoli sono popolati di animali. Alcuni casali sono stati ristrutturati e offrono un agio più moderno. Ma le poche Case di Muro sul fianco delle Fonnelle mantengono lo stile tipico della valle. La conca è interamente terrazzata: i muretti di pietra a secco, eretti da generazioni di agricoltori grazie al paziente spietramento dei campi, contengono la terra degli orti e degli antichi coltivi, impedendone lo scorrimento a valle e il dilavamento. Questi campi hanno nutrito per decenni, prima e dopo la guerra, gli abitanti di Colle San Magno. Le famiglie si spostavano pendolarmente qui nei mesi adatti e si dedicavano all’agricoltura e all’allevamento del gregge di ovini, dei buoi per l’aratura, dei cavalli e dei muli per il trasporto della legna e delle derrate, dei suini e degli animali da cortile. Erano comunità economicamente autosufficienti. Lo sfollamento dei paesi a causa della guerra e poi la nascita dell’industria, dalle locali cave di asfalto alle fabbriche di valle, hanno modificato progressivamente i comportamenti delle famiglie. La modernità con i suoi agi ha infine portato all’abbandono di Sett’are e degli altri villaggi dei dintorni, come la Cupa e le Iannole. Ma non si tratta di un abbandono completo e definitivo. Alcuni edifici sono ancora saltuariamente utilizzati mentre altri vengono ristrutturati. Gli agriturismi tentano di intercettare una nuova domanda emergente. Il nascente Museo Vivo della Memoria sarà il collante dell’identità di questa comunità e l’antidoto alla sua dispersione.
Il ritorno si svolge sulla sterrata dell’andata. L’escursione richiede un tempo complessivo di 2 ore e 30 minuti, cui vanno aggiunte le visite e le soste. Il dislivello è di 300 metri.
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Le Pagliare di San Magno
La nuova tappa del viaggio nell’Italia di pietra è il pianoro delle Sett’are nel gruppo di monte Cairo. Inutile sforzare la memoria. L’itinerario è sconosciuto perfino agli escursionisti, figuriamoci ai turisti che cercano monumenti celebri e comodi hotel. Siamo in Ciociaria, nel Lazio più nascosto. Eppure questa è una magnifica passeggiata didattica, in grado di raccontare esemplarmente l’evoluzione della società italiana. Partiamo dalla piana del Liri, a metà strada tra Roma e Napoli. Qui il paesaggio è segnato dalla modernità, dalle grandi infrastrutture, dall’autostrada e dalla direttissima ferroviaria, dalle grandi fabbriche come la Fiat, dagli insediamenti industriali diffusi, dai centri commerciali, dall’agricoltura intensiva e dagli allevamenti. Raggiunta Roccasecca, il paesaggio cambia radicalmente. Ci s’inerpica sui tornanti che salgono a Colle San Magno con bella vista sul parco archeologico del monte Asprano. Osserviamo le reliquie della prima industrializzazione, lo sfruttamento delle risorse minerarie e delle cave di asfalto. Scopriamo le tracce del passaggio della guerra, in quelle che erano le retrovie della linea Gustav. E quando ci c’inoltriamo nella valle della Cesa dei Tredici, stretta tra l’Obachelle e il monte Salere, ritroviamo l’ancestrale mondo pastorale e contadino, un antico villaggio rurale, i terrazzamenti degli antichi coltivi, le pagliare, le baracche in pietra a secco, i fienili, le stalle, i recinti, i pozzi, le aie, i pascoli, i castagni e i lecci, gli alberi da frutto e le tracce degli antichi pergolati. Ma quando la malinconia di un mondo ormai fatiscente e in abbandono sembra entrarci dentro, ecco le sorprese: bovini al pascolo brado, greggi di pecore e capre, cavalli sulla cresta del colle, carovane di muli che trasportano la legna del bosco ceduo, pagliare ristrutturate e abitate. L’itinerario è una grande metafora della vitalità italiana e della cultura del continuo adattamento. Torniamo, anche se solo per un giorno, a quello che De Rita definisce il nostro solido “scheletro contadino” per capire l’economia reale e ritrovare un nuovo slancio vitale.
L’Italia della pietra a secco
Passeggiate tra i monumenti dell’architettura spontanea
Per approfondire
I sentieri della zona sono descritti nella guida Gole del Melfa – Monte Cairo, completa di cartografia, scritta da Carlo Scappaticci e pubblicata nel 2007 dalla Comunità Montana “Valle del Liri”. La guida agli itinerari è consultabile anche ondine all’indirizzo www.montecairotrekking.it/. Il gruppo montuoso Cairo-Obachelle è descritto inoltre nel primo volume di Appennino centrale di Carlo Landi Vittorj nella collana Guida dei Monti d’Italia del Cai-Tci e nel primo volume di A piedi nel Lazio di Stefano Ardito nelle edizioni Iter.