Itinerario nella provincia di Cuneo

Bastia Mondovì. L’Aldilà di San Fiorenzo

Le tappe dell’itinerario

Bastia Mondovì occupa un’ansa del Tànaro, sui primi colli della Langa. La chiesa di San Fiorenzo richiama memorie storiche perché luogo di sosta dei pellegrini e dei mercanti che percorrevano la “via del sale” che dal mare traversava le Alpi Marittime. Che non si tratti di una semplice cappella di paese lo dimostra se non altro l’imponente ciclo affrescato che copre all’interno una superficie di 326 mq. La data degli affreschi è il 1472. La parete destra della navata è dedicata al giudizio universale. Il tema è declinato in sei scene: il giudizio, le opere di misericordia, il purgatorio, la cavalcata dei vizi, l’inferno e il paradiso.


Nell’affresco non compare la tradizionale figura del Cristo giudice, ma il giudizio è affidato alla Pesatura delle buone e delle cattive azioni effettuata sulla bilancia a doppio piatto dall’arcangelo Michele: la scena si svolge alle porte del Paradiso e interessa un personaggio (forse un membro della famiglia Della Torre, committente dell’affresco) che viene drammaticamente conteso tra l’angelo e il diavolo.


Le Opere di misericordia sono la chiave interpretativa del giudizio universale. Il vangelo di Matteo ci dice infatti che il giudizio dell’ultimo giorno verterà sulle opere di carità: chi avrà dato aiuto al suo prossimo (affamato, assetato, nudo, pellegrino, ammalato, in carcere, morto) sarà premiato e chi si sarà rifiutato di assistere i suoi fratelli sarà invece dannato. Perché il prossimo è ‘figura’ di Cristo stesso. Quest’attestazione evangelica è ben resa nell’affresco: le persone assistite sono tutte raffigurate con l’aureola sul capo. Le opere di carità trovano una sintesi unitaria nell’immagine della donna che allatta al suo seno due infanti in fasce e sono poi declinate nel tradizionale settenario: una donna offre del pane a un affamato; un’altra donna offre un bicchiere di vino a un povero zoppo e regala delle monete a un pellegrino male in arnese; una terza donna si occupa dei vestiti richiesti da un viandante; un benefattore va a visitare un detenuto nella prigione alla base della torre e porta generi di conforto; una donna consola un ammalato costretto a letto; religiosi e religiose celebrano l’ufficio funebre per un defunto.


Associata alle opere di carità è la grande immagine del Paradiso, trascrizione dell’incipit del capitolo 21 dell’Apocalisse: «vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. (…) E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate». Il Paradiso è immaginato come la città celeste dell’Apocalisse:  «la città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli». Se è vero che gli angeli presidiano le torri della città, nell’affresco la porta è in realtà una sola ed è custodita da San Pietro. Questo particolare richiama un’altra immagine del Paradiso, quella del giardino dell’Eden, la cui porta d’accesso fu chiusa dopo il peccato originale e la cacciata dei progenitori Adamo ed Eva colpevoli del peccato originale; sarà San Pietro a riaprirla usando le chiavi del regno dei cieli consegnategli da Gesù. All’interno delle mura, su una predella di legno chiaro, Maria, la madre di Dio assunta in cielo, viene incoronata per mano di Dio padre e del figlio Gesù. L’incoronazione si svolge nel tripudio dei serafini ed è accompagnata dalle musiche suonate da un’orchestra celeste. L’artista ha raffigurato in questa scena tutto il catalogo degli strumenti musicali del Quattrocento: le trombette, i tamburini, la ribeca, il liuto, l’arpa, la ghironda, il cembalo, l’organo e il salterio. La scena centrale è affiancata dai cori dei beati, organizzati in sei file ordinate. Molti di loro sono riconoscibili grazie alle scritte identificative e agli attributi.


Il Purgatorio è immaginato come un luogo sotterraneo posizionato ai margini del paradiso e dell’inferno. Sei avelli quadrati mostrano il buio e le fiamme sottostanti. In questi avelli dimorano temporaneamente peccatori che espiano la loro colpa e che esprimono nel gesto della preghiera a mani giunte la speranza della prossima salvezza. Il diverso livello di immersione nelle fiamme attesta la durata della pena residua. Per alcuni giunge l’ora della liberazione: escono così dalle fiamme purgatorie e sono accolte in Paradiso da un angelo premuroso che si affaccia dalla torre.


Il tema del volet di destra dell’affresco è annunciato dall’angelo di guardia sulla torre di destra della città celeste. Egli pronuncia la sentenza di dannazione: «ite maledicti in ignem eternum» (maledetti, andate nel fuoco eterno). Coloro che sono stati pesati e sono stati giudicati negativamente si incolonnano nel corteo dei dannati che i diavoli scortano all’inferno. Il corteo dei dannati è reinterpretato a Bastia nell’immagine della Cavalcata dei vizi. Sette personaggi interpretano i vizi capitali e cavalcano animali emblematici: legati al collo da una lunga catena sono trascinati nella bocca del Leviatano infernale. Il primo è la Superbia, un orgoglioso sovrano, con la corona in testa, l’armatura sulla calzamaglia e la spada sguainata, a cavallo di un leone. Il secondo è l’Avarizia, miserabilmente vestito pur se in possesso di ricco gruzzolo di monete, a cavallo di un bianco levriero con la collottola e un osso in bocca. Il terzo vizio è la Lussuria, a cavallo di un lascivo caprone, impersonata da una donna elegante, con un abito a fronzoli e un curioso copricapo, che si ammira nello specchio e tira su maliziosamente la gonna mostrando le calze rosse e la coscia bianca. Il quarto è l’Invidia, a cavallo di un leopardo, che indica con un dito i vicini, oggetto della sua maldicenza. Il quinto è la Gola: a cavallo di un avido lupo ha uno spiedo con l’arrosto sulla spalla e tracanna vino da una brocca. Il sesto è l’Ira che in un impeto di collera arriva all’autolesionismo e si trafigge la gola con un pugnale; cavalca un lupo. Il settimo è l’Accidia, interpretato da un sonnolento personaggio a cavallo di un asino indolente. Il corteo è aperto e chiuso da due diavoli che reggono e trascinano la catena. Alla testa del corteo è un simpatico diavolo musicante, che suona il flauto e il tamburo e che guida questa sorta di danza macabra con le parole: «O infelices peccatores venite ad choreas. Tararirara».

La diabolica marcetta musicale del tararirara introduce i dannati all’inferno fa da contraltare “basso” al concerto suonato dagli angeli in paradiso. La stessa cavalcata dei vizi è l’alternativa negativa alla sfilata delle virtù nella scena delle opere di misericordia.


Ingoiati dalla gola del Leviatano i dannati entrano nella grande caverna dell’Inferno. Al centro è Lucifero: un essere mostruoso, certo, ma non orripilante; un ‘cattivo’ da cartoni animati, con le corna, due grandi orecchie bovine dalle quali spuntano serpentelli, capelli a spazzola, occhi tondi senza ciglia, naso schiacciato, due bocche con le quali sgranocchia dannati, il corpo scuro pieno di brufoli pelosi, un grande pancia nella quale rumina i dannati, una terza bocca-ano dalla quale defeca un superbo, due ulteriori bocche sulle ginocchia che al posto della lingua allungano intraprendenti serpentelli, una catena che gli imprigiona le caviglie, zampe palmate. A fargli da sgabello sono gli uomini della legge, avvocati e procuratori, sacerdoti della giustizia ma per la gente comune facitori d’ingiustizia, secondo il detto «summum ius, summa iniuria».

A sinistra di Satana è descritta la pena della ruota dentata: i corpi dei dannati sono straziati dai rostri e al termine del giro azionato dal demonio con la manovella precipitano in un pozzo. Al di sopra si vede il corpo di un dannato stritolato da un serpente: il rettile che esce dalla bocca indica nel dannato un falso testimone. Nelle vicinanze un demonio cavalca il corpo di una prosseneta, tormentata con la coda appuntita e tirata per i capelli. Un altro demonio porta sulle spalle una gerla del fieno piena di corpi di dannati. A destra di Satana è piantato l’arbor mali, un albero disseccato che funziona da forca per dannati impiccati per la parte del corpo che ha peccato (l’occhio, la bocca). Seguono le punizioni dei vizi capitali. Il goloso ha il collo strozzato da un serpente e non riesce a deglutire il coscio arrosto che il diavolo gli infila in bocca. L’usuraio è ingozzato forzosamente dall’oro fuso che un diavolo trae con un mestolo da una caldaia. L’avaro è immobilizzato e manganellato sul capo con un fascio di serpenti. Il superbo ha sulla testa un rettile acciambellato a mo’ di turbante; un diavolo con un trincetto gli taglia a pezzi un braccio e ne divora una mano. Un altro diavolo fa cozzare l’una contro l’altra le teste di due dannati, rappresentanti di fazioni contrapposte. Un demonio cinocefalo porta all’inferno un monaco, caricandoselo sulle spalle.

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