Itinerario nella provincia di Trento

Pinzolo e Carisolo. Al gran ballo dei morti in Val Rendena

Le tappe dell’itinerario

Siamo ai piedi dei valloni dell’Adamello e delle guglie delle Dolomiti di Brenta, dove i due rami del Sarca si fondono e originano la Val Rendena. Qui ripercorriamo le orme lasciate da una famiglia di pittori itineranti del Cinquecento. Si chiamavano Baschenis e giravano a piedi valli e paesi del Trentino proponendo ad agiati mercanti, priori di confraternite e arcipreti i loro servigi di frescanti ambulanti. Partiamo da San Vigilio di Pinzolo raggiungiamo poi Santo Stefano di Carisolo per osservare due affreschi gemelli della Danza macabra.


Punto di partenza è la chiesa di San Vigilio, appena fuori Pinzolo, isolata e ben visibile dalla strada statale. La facciata medioevale è ricoperta da affreschi: il più singolare è sicuramente la Danza Macabra dipinta da Simone Baschenis nel 1539. Una lunga teoria di cadaveri mummificati e scheletriti invita ironicamente a danzare persone diverse e spaurite. La disco-music è suonata da un inquietante trio, un’orchestra di cornamusa e flauti. Il refrain ripete incessantemente che «la hora è fenita». I primi a ballare il tango dei morituri, allacciati agli scheletri, sono i prelati: il pontefice, il cardinale, il vescovo, il sacerdote e il fraticello. Incedono poi i nobili: l’imperatore, il re, la regina e il duca. Segue il corteo dei rappresentanti dei vari strati sociali: il medico, il guerriero, il ricco avaro, un giovane, un mendicante, la monaca, la gentildonna. Chiudono il trenino una vecchia e un bambino. A destra irrompe rapida e saettante la Morte, uno scheletro con la faretra piena di frecce, che cavalca un bianco cavallo alato e calpesta i cadaveri a terra e dice: «Fati bene tanto che seti in vita / Che come l’ombra la morte vi seguita / De li vostri delicti penitentia fati / La ve zonzerà pu presto che non pensati». Da ultimo l’Arcangelo Michele, con la bilancia e la spada sguainata, tiene a bada il Diavolo che mostra sul suo libro i nomi dei sette peccati capitali. Sono figure che impressionano. È una scena che compare sinistra e ammonitrice solo alla fine del medioevo e che riproduce l’impianto scenico tipico del teatro medievale e dei misteri. Lasciamo San Vigilio e puntiamo alla chiesetta di Santo Stefano. La distanza è breve, poco più di due km, da percorrere a passo rilassato. Traversando Via Fucine e Via Genova, andiamo a raggiungere il ponte sul Sarca. Imbocchiamo al di là la Via Trento, al margine di Carisolo, e ci dirigiamo verso lo sperone di roccia all’imbocco della Val Genova che regge la chiesa di Santo Stefano e il piccolo cimitero. Una salita porta al parcheggio e in breve alla chiesetta e alle rocce del Golgota. La passeggiata agita gli archivi della memoria. La danza macabra riunisce in un solo corteo i ricchi e i poveri, i potenti e gli umili La morte non fa differenze. Una prospettiva egualitaria che suona come una rivalsa sociale? Oppure un paradossale premio, un conforto dopo un’esistenza dura e travagliata e una vita di stenti? Le domande si affollano. Lo spauracchio della morte è una forma di pedagogia della paura? O è al contrario uno stimolo a una più intensa esistenza cristiana? Si vuole marcare il senso della fine o spingere a una completa adesione alla vita? Non è forse la danza macabra una sorta di allarme preventivo destinato a scongiurare la disperazione finale? E oggi? Chi pensa più alla morte? Una serenità epicurea, condita dal versamento dei premi della polizza assicurativa, oppure la negazione isterica sembrano i rimedi più diffusi e adeguati a questa coscienza agghiacciante della fine… O no? Un po’ di fiatone sul tratto finale in salita ci fa abbandonare le riflessioni. È tempo di ammirare il verde dei boschi della Val Genova e questo gioiello d’arte e architettura popolare. Santo Stefano è uno scrigno di affreschi: inaspettato è quello che ricorda il supposto passaggio di Carlo Magno. Deliziosa è la scena dell’Ultima cena: Gesù e gli apostoli siedono davanti la tavola imbandita: ci sono il pane e il vino; c’è naturalmente l’agnello pasquale; ma non mancano le trote e i gamberi di fiume del Sarca. E poi, all’esterno è la seconda Danza macabra, dipinta nel 1519, che si sviluppa in 20 quadri su 12 metri di lunghezza. La morte fa coppia con i prelati, irride un Vescovo (o episcopo mio giocondo / le gionto il tempo de abandonar el mondo!), danza con i potenti, sfida un giovane elegante (de vostra zoventù resplende el sole / però la morte chi lei vole, tole) e si fa beffe perfino di un mendicante storpio (non dimandar misericordia, o povereto zopo / a la morte, che pietà non ha, no ghe darà intopo!). Riesce ad essere perfino galante nell’invitare al ballo la bella gentildonna, ma con parole di un sarcasmo sferzante: Che giova a te vanagloria, pompa e beleze / la morte te farà pianzer e perder le treze!

Non vi è dunque speranza? Nella Danza macabra perfino Cristo dice al turista che passa: «O tu che guardi, pensa di costei, la me ha morto mi, che son signor di lei». Ma nel vessillo di vittoria che il Cristo di Baschenis porta in mano c’è forse la chiave che spiega l’arcano del macabro ballo. L’uomo allontana da sé l’idea della morte e dà un senso alla vita ripercorrendo la storia di Cristo che ha vinto la morte. «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?». La domanda che l’angelo rivolge alle donne nell’alba di Pasqua ha una risposta di speranza nella fede cristiana: «Non è qui, è risorto!».

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