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Pofi: il giudizio finale nella chiesa di Sant’Antonino


Seguiamo ora la via Casilina che esce da Frosinone in direzione di Cassino. Dopo una ventina di chilometri, ecco il bivio di Pofi, un piccolo centro alto su un colle. Fuori del paese c'è una chiesa romanica dedicata a Sant'Antonino. Ed è lì, sulla controfacciata, che pittori di scuola umbro-laziale, su probabile commessa della famiglia Caetani, affrescarono un grande giudizio universale. Il dipinto è arrivato fino a noi, con qualche acciacco, ma ricco di particolari interessanti e godibili.

Gesù è in alto al centro della fascia superiore, seduto sull'arcobaleno della nuova alleanza, in una mandorla sorretta dagli angeli. Egli mette in mostra le ferite delle mani e dei piedi provocate dai chiodi della crocifissione e anche la piaga, sul petto scoperto, provocata dal colpo di lancia di Longino. Le piaghe sono il segno del sacrificio del Figlio finalizzato a riconciliare l'umanità con Dio. Sono dunque la giustificazione del giudizio finale, che si traduce in misericordia per i buoni e in collera verso i cattivi che hanno rifiutato l'amore estremo del loro salvatore. Ai lati del giudice sono Pietro (con le chiavi) e Paolo (con la spada) che precedono il corteo dei santi: si riconoscono, grazie ai loro tradizionali attributi iconografici, santa Lucia, sant'Antonio abate, santa Maria Maddalena, Santa Caterina d'Alessandria, San Bartolomeo e San Benedetto. La fascia inferiore dell'affresco contiene una scena che non è frequentemente rappresentata. E' l'adorazione della Croce. Nel momento del giudizio - secondo il vangelo di Matteo - "apparirà in cielo il segno del Figlio dell'uomo". Segno che è sempre stato identificato con la croce. La tradizione conferma che "questo segno della Croce brillerà in cielo" e anzi sarà così luminoso da oscurare perfino lo splendore del sole e della luna. Interpretando la tradizione, il pittore di Pofi ha collocato questa scena sullo sfondo di un cielo sereno e di un prato verde. E la stessa cima del Golgota, dove gli angeli sollevano la croce, non è più una pietraia desolata: tra le rocce spuntano piante verdi, segno della vita che rinasce. Ai lati della croce, in ginocchio e in preghiera con le mani giunte, sono gli intercessori, Maria e Giovanni il Battista, cui si affianca un santo guerriero.

La resurrezione dei morti è resa con una deliziosa scenetta. Corpi nudi di uomini e di donne, tutti paffuti e rotondetti, escono da tre grandi urne marmoree decorate di fregi. Alcuni risorti attendono il giudizio rivolgendosi in preghiera verso il giudice e gli intercessori. Altri hanno già la percezione del loro destino. A rimarcare la valutazione individuale dei meriti e delle colpe viene collocato a fianco dei risorgenti l'arcangelo Michele, munito di bilancia a doppio piatto e che brandisce una minacciosa spada sguainata.

Il paradiso è rappresentato come una città cinta da mura merlate e dotata di alti palazzi e di torri di varia foggia. Un'allusione alla città apocalittica della Gerusalemme celeste. A guardia della porta del paradiso, preceduta da una scalinata e ornata di pannelli, c'è San Pietro che porta appesa alla mano destra una grande chiave. Il corteo degli eletti in eleganti abiti lunghi si approssima alla porta in attesa dell'apertura. Si riconoscono un papa, un cardinale, fanciulle e giovani nobili.

La scena con più glamour è ovviamente quella dell'inferno, cui è dedicato un ampio spazio.  I reprobi, dopo il giudizio, sono sospinti da un angelo carceriere verso l'erebo. I diavoli, con ali di pipistrello, li prendono in consegna per condurli ad inferos al cospetto di Satana. Il corteo dei dannati procede tormentato da demoni sadici e dispettosi. Sfilano papi, re, cardinali, vescovi e gente comune. Un diavolo bianco, con aria soddisfatta, trascina al suo destino anche un frate francescano.

Al centro dell'ade, Lucifero siede sul suo trono infernale a gambe larghe e piantando in terra zampacce palmate e unghiute. Mostri animaleschi spuntano dalle sue spalle e dalle ginocchia e abbrancano dannati per divorarli. In basso sfila una serie di dannati che incarnano i sette vizi capitali. Le scritte li individuano puntualmente in quest'ordine: invidia, ira, avarizia, superbia, luxuria, gola, accidia.

Un enorme pentolone di rame è il brodo di cottura di un folto gruppo di dannati. Il bollore è alimentato da una fornace sottostante, dove il fuoco è mantenuto vivace dal soffio di due diavoli. Altri due demoni-cucinieri, armati di mestoli e forchettoni, provvedono a rimestare il carnaio dei peccatori.  Un criminale omicida (micidiaro) è squartato da un diavolo nero armato di spada e di coltellaccio da cucina.

Il pittore ha voluto collocare all'inferno anche l'oste (tavernaro). Il locandiere medievale non era benvoluto. La locanda era spesso infatti un ritrovo di ubriaconi, la bisca dei giochi proibiti, un bordello a prezzi popolari, un ostello dalle luride stanze, il luogo previlegiato di spoliazione dei pellegrini e dei mercanti di passaggio. Nei villaggi l’osteria era dunque, inevitabilmente, l'alternativa alla chiesa. E il pittore ha voluto ascoltare l'imprecazione popolare: "oste della malora, va' all'inferno!". Il taverniere è raffigurato con gli strumenti tipici del suo lavoro: un boccale e un grande bicchiere di vino. La sua punizione è un diavolo dalle zampe caprine che gli impedisce di bere dal suo bicchiere e gli versa invece con un grosso mescolo un liquido bollente nella gola.

L'ultima punizione è la vendetta privata dell'arciprete contro i suoi paesani che non hanno voluto versare l'obolo dovuto alla parrocchia. Questi dannati sono raffigurati sospesi a testa in giù è squartati. Una scritta ammonitrice per i vivi ricorda che essi sono rei di non aver pagato i tributi alla chiesa (li falsi araturi et no dano lo oro alla ecclesia). 

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